[Tierra del Fuego: Ushuaia-Porvenir; 475 km, 2530 metri di dislivello.
Tragitto: Tolhuin-Rio Grande-Paso fronterizo de San SebastiƔn-Porvenir.
Sei balene, un pinguino, un branco di delfini, innumerevoli guanacos.]
Il nostro immaginario sulla Patagonia si fondava principalmente su dei libri: il primo ĆØ Latinoamericana: i diari della motocicletta di Ernesto āCheā Guevara, che dĆ il nome a questa newsletter (dove però abbiamo sostituito il nome coloniale di America con quello originario di Abya Yala); il secondo ĆØ In Patagonia di Bruce Chatwin, il capostipite di tutti i racconti di viaggio che tuttavia mantiene una prospettiva eurocentrica un poā imbarazzante; e lāultimo ĆØ Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer, che abbiamo letto nella versione ridotta disponibile in italiano e racconta le lotte operaie del biennio 1920-1922 represse nel sangue dallāEsercito argentino e dalla Liga patriotica.
Il nostro immaginario, inoltre, si era alimentato di ore di video youtube girati da viaggiatori di ogni origine e foggia. Infatti, la Patagonia e in particolare Ushuaia, la cittĆ più a sud del mondo, sono la Mecca di chi viaggia in bicicletta, un luogo di pellegrinaggio da raggiungere almeno una volta nella vita, possibilmente partendo dallāAlaska. Noi, per una serie di ragioni pratico-psicologiche che si riassumono nel non riuscire a scegliere quanto a nord partire, qualche mese fa abbiamo deciso di partire dal luogo più meridionale dove avrebbe potuto portarci un aereo - appunto, Ushuaia - e da lƬ risalire. Ushuaia ĆØ una cittĆ di ottantamila abitanti, fondata a fine Ottocento, che al nostro immaginario europeo potrebbe ricordare paesaggisticamente e architettonicamente la Norvegia, per quanto si tratti di una Norvegia un poā più disordinata, un poā più povera, in definitiva una Norvegia meridionale. Quello che meraviglia, di questo panorama, ĆØ lāaccostamento ossimorico tra il paesaggio dāalta montagna e il mare. Le Ande fueguine sono montagne nere come le Retiche, ma incredibilmente affondano le loro radici nel Canale del Beagle, cioĆØ letteralmente nelle acque dellāAtlantico e del Pacifico; salendo per il sentiero che porta al ghiacciaio Vinciguerra, il piu australe della terra, vediamo con meraviglia il mare della fine del mondo.
Quando Ernesto Guevara e Alberto Granado partono da Buenos Aires per il loro viaggio in motocicletta attraverso lāAmerica Latina ĆØ fine dicembre del 1951, quando partiamo noi verso Ushuaia ĆØ lā8 gennaio 2025, sono passati cinquantotto anni dalla morte del Che in Bolivia e più di quindici dalla prima volta che abbiamo letto quei suoi diari di viaggio. Atterrando in Patagonia, il nostro viaggio cambia di passo: lasciamo un ostello identico ad altri cento, le sue zone comuni di inviti ironici a lavare i piatti e di facce annoiate dallo spolliciare telefoni, abbandoniamo la metropoli di Buenos Aires e piantiamo la tenda in un campeggino nei barrios orientali di Ushuaia. La dueƱa ĆØ incinta, partorirĆ durante la nostra permanenza, le docce sono caldissime, e ci sono diversi bracieri e griglie sparsi per il giardino. Il cuore del luogo però ĆØ il refugio: una tavolata in un capanno dove la sera compaiono soggetti variegatissimi e affascinanti da ogni lato dellāAmerica Latina, le cui storie accompagnano le empanadas e il mate, suggeriscono nuove illusioni e rinvigoriscono la solidarietĆ viajera.



Usciamo da quel campeggino puntando a nord, in direzione della pioggia e del vento, con qualche consiglio raccolto nel refugio. Il vento qui ĆØ totale, o forse ĆØ totale il nostro esserne in balƬa. Questi primi giorni sono lentissimi, il vento ci spezza la pedalata e spinge fuori strada. Ć una condizione scoraggiante che tuttavia ha un effetto collaterale di inversa proporzionalitĆ : meno chilometri facciamo, più persone incontriamo e più storie ascoltiamo. Tra le ultime Ande frastagliate e le prime pianure spazzate dalle raffiche, scopriamo angoli accoglienti come cabaƱas dimenticate sulle rive di un lago, seminterrati di panettiere solidali, saune ucraine abbandonate fronte oceano e la straordinaria accoglienza argentina che apre le porte e abbraccia fortissimo. Nella loro casetta di RĆo Grande, ci ospitano Chralcan e Mica, cicloviaggiatori di lungo corso che hanno deciso di imbastire una falegnameria in furgone per riprendere a viaggiare e restituire la solidarietĆ ricevuta nei loro anni di vagabondaggi. Alcune di queste righe le scriviamo dopo delle giornate durissime con vento implacabile e dopo essere state raccolte a lato strada da un surfista di nome Victor e invitate a dormire nella sua casa sulla spiaggia, da dove contempliamo balene a spasso. La casa di Victor sarĆ anche il luogo dove incontreremo una coppia canadese cicloviajera; Christine e Guillaume diventeranno le nostre compagne di lotta contro il vento per i giorni seguenti, pedalando in una formazione serrata da fare invidia al treno della Saeco nelle volate di Mario Cipollini, permettendoci fare quasi trenta chilometri al giorno (!).








Della Patagonia, e in particolare della Tierra del Fuego, possediamo un immaginario epico, come non può che essere per un territorio che si autoproclama Ā«El fin del mundoĀ» e prende il nome ufficiale di Provincia de Tierra del Fuego, AntĆ”rtida e Islas del AtlĆ”ntico Sur, nella parte argentina, e di Regione de Magallanes y AntĆ”rtica Chilena, nella parte cilena. Solo parlando con le persone, capiamo di non esserci mai rese conto che la fine del mondo, in realtĆ , ĆØ unāisola, unāisola divisa a metĆ a una linea retta che segna il confine tra Argentina e Cile. Il suo essere unāisola rende ancora più il senso di ciò che ci immaginavamo: la Tierra del Fuego ĆØ una landa estrema, inospitale, spazzata dal vento, giĆ abitata da popoli originari poi sterminati con la colonizzazione europea e ora amministrata attraverso il modello agricolo delle estancias.
Ć difficile leggere, in un territorio colonizzato, la storia precedente alla colonizzazione: degli/delle abitanti originari/e di queste terre sappiamo poco e del resto anche qui, a scuola, come ci dice una ragazza argentina nel camping di Ushuaia, Ā«si studia la storia europeaĀ». Inoltre, la stessa toponomastica ĆØ un elenco di cognomi di maschi europei che approdarono a queste latitudini durante il XIX secolo, come lo zoologo genovese Decio Vinciguerra che dĆ il nome al ghiacciaio dove siamo state o il salesiano piemontese Giuseppe Fagnano che dĆ il nome al lago sulle cui sponde sorge il paese di Tolhuin. Gli europei cominciarono a scendere in queste terre estreme a inizio Ottocento; uno dei primi fu lāufficiale della Marina inglese Robert FitzRoy (da cui prende il nome il monte più celebre della Patagonia, chiamato ChaltĆ©n in lingua tehuelche) a bordo del Beagle (da cui prende il nome il canale che unisce il Pacifico allāAtlantico).
FitzRoy, arrivato nelle terre abitate dal popolo Yagan, catturò per vendetta quattro prigionieri yagan: una bambina, due uomini e un bambino di nome Orundeko e, per primo al mondo, si fece venire unāidea che avrebbe avuto poi molto successo nellāEuropa positivista: deportare queste quattro persone in Europa per educarle, cristianizzarle, studiarle e infine sfruttarle come intermediarie nella Ā«civilizzazioneĀ» della Patagonia. La stessa sorte sarebbe toccata a gruppi di KawĆ©sqar, traslati in Europa con lāautorizzazione del governo cileno, per essere esposti nei giardini zoologici delle capitali europee, mentre una famiglia di Selkānam fu messa in mostra alla Expo di Parigi del 1889, la stessa per cui venne eretta la Tour Eiffel. La pratica si diffuse anche negli stessi Paesi sudamericani, che mostravano nelle capitali i loro abitanti Ā«primitiviĀ» per legittimarne la conquista e la sottomissione, mentre a sud privatizzavano le loro terre, finanziavano Ā«cacciatori di indigeniĀ» e missioni religiose, come quelle salesiane, che distrussero le culture originarie. Nel giro di qualche decennio gli/le undicimila Yagan, KawesqĆ”r, Haush e Selkānam della Tierra del Fuego furono sterminati/e. Noi, per ora, della storia che precede la colonizzazione abbiamo visto poco: oltre ad alcuni toponimi, come Tolhuin (ācuoreā dellāisola), lungo la strada, ci siamo imbattute nel recinto intorno alla ComunitĆ indigena āRafaela Ishtonā, territorio ancestrale del popolo Selkānam. Sappiamo però di pedalare in terre dove chi vi abitava ha subito un genocidio.
Lāappropriazione di questi territori da parte degli europei ĆØ avvenuta attraverso la recinzione della pampa, la sua privatizzazione e il suo sfruttamento come pascolo di ovini e bovini, attraverso la costruzione di estancias. Il nostro primo incontro con unāestancia lo abbiamo il nostro terzo giorno di viaggio, dopo sessanta chilometri di vento contrario. Si tratta della Estancia Viamonte, fondata nel 1902 dai figli del reverendo Thomas Bridges nelle terre dei Selkānam; ĆØ stato proprio un discendente del reverendo a negarci un riparo e a suggerirci di mettere la tenda in mezzo al nulla, a bordo della Ruta nacional 3, lāunica strada che scende a queste latitudini della pampa patagonica. Le estancias, con le loro recinzioni onnicomprensive, segnano il paesaggio che ci accompagna al di lĆ della frontiera cilena e, in una terra senza case, si rivelano in un paio di casi un riparo prezioso e una fonte dāacqua.
In entrambi i casi, ad accoglierci nellāestancia, ĆØ stato un gaucho. I gauchos, uomini a cavallo che lavorano nelle fattorie del Sud, mangiano carne e lavorano il cuoio, portandosi appresso un atteggiamento ribelle e un afflato romantico, appartenevano giĆ al nostro immaginario mitico su queste terre. Nellāattraversare a Tierra del Fuego ne abbiamo incontrati vari: il primo ĆØ un ventenne di Cordoba, vestito con pantaloni e cappello gaucheros, arrivato in autostop dalla sua cittĆ , portandosi appresso un flauto traverso e un charango, una specie di liuto andino. (Nellāascoltarlo ci risuonano gli Inti Illimani, il cileno che siede con noi ci racconta amaro di sua madre, reclusa nel settembre ā73 allāEstadio Nacional de Santiago de Chile dallāesercito golpista di Pinochet.) Il secondo ĆØ un gaucho di unāestancia che ci ha permesso di passare la notte accampandoci al riparo dal vento: il tipo, nato e cresciuto in Argentina, ci ha raccontato di avere la cittadinanza italiana, perchĆ© discendente di coloni di Pavia di Udine. Il terzo, che abbiamo visto più spesso sul ciglio delle strade, risponde al nome di gauchito Gil. Si tratta di Antonio Mamerto Gil NuƱez, nato a Mercedes intorno al 1840 e morto nel 1878, ĆØ forse il santo pagano più popolare dellāAmerica Latina: era un disertore, eroe del popolo, impiccato e torturato da un commissario di polizia. Nel luogo dellāesecuzione e in mille altri, sorgono piccoli santuari di colore rosso, dove fedeli e viaggiatori lasciano birra, sigarette e foglie di coca per invocare i suoi poteri taumaturgici.
Al di lĆ della narrazione romantica, Ushuaia, Tolhuin e RĆo Grande sono cittĆ che ci raccontano una Tierra del fuego molto più complessa e diversificata della sua rappresentazione a fini turistici. Infatti, la Tierra del Fuego gode di un regime fiscale favorevole e questo ha determinato la creazione di un grande polo industriale a RĆo Grande, dove storicamente gli argentini venivano anche a comprarsi le automobili, a prezzo ribassato per lāassenza di tasse. Ora questa ĆØ una delle provincie più care del Paese, mentre le industrie manifatturiere stanno via via chiudendo o svendendosi a unāunica proprietĆ che, pare, appartiene al cugino del ministro dellāeconomia. Anche la parte cilena gode di un trattamento fiscale privilegiato e a Punta Arenas cāĆØ unāampia zona extradoganale. Il Cile ci accoglie, con una ruvidezza un poā andina, e ci lasciamo alle spalle quel desiderio cosƬ argentino di essere europei. Lungo la strada, al di qua del confine, alcune estancias ci ricordano gli avamposti israeliani in Cisgiordania: da questa terra dove ĆØ stato commesso un genocidio, leggiamo del cessate il fuoco a Gaza e dellāattacco a Jenin, e continuiamo a sognare una Palestina libera e in pace.

«Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!»
Paul Valéry, Le cimetière marin